
I – Breve biografia
Gioacchino da Fiore (1135-1202),
calabrese, dopo di essere stato introdotto alla carriera notarile nella regia
di Guglielmo I, decise di abbandonare la professione e si diede alla vita
eremitica. In seguito, ha fatto un pellegrinaggio a Gerusalemme e sul Tabor
avrebbe avuto una ‘visione’ che gli avrebbe dischiuso la comprensione di tutta la Sacra Pagina. Rientrando, ha vissuto
da eremita e da predicatore sull’Etna (1168-1170). Nel 70 diventa sacerdote e un
anno dopo, si fa monaco. Nel 77 viene fatto abate del Corazzo, lo stesso
monastero che lo accolse qualche anno prima.
Con lo scopo di ottenere la
filiazione all’ordine cistercense, si reca a Casamari (1183). Pur non riuscendo
ad avere la filiazione[1],
rimani a calamari per un anno e mezzo come ospite di quello monastero. In
questo tempo di soggiorno a Casamari, sostenuto dall’abate Geraldo – sotto la
protezione di Lucio III, sommo pontefice –, avvia la sua produzione teologica[2].
Sempre in questo monastero, conobbe Luca di Cosenza, che fungeva da notaio
dell’abate Geraldo e diventerebbe il suo segretario.

Nel 1200 scrisse una lettera
conosciuta come Testamento, in cui sottometteva i suoi scritti a giudizio della
Chiesa.
II – Luca di Cosenza


Oggi si domanda sulla data della
trascrizione che può trovare una risposta, approssimativa nel riferimento
interno che fa il testo alla presa di Gerusalemme (1187), alla terza crociata
(1189) e fa riferimento, di passaggio, alla Concordia come opera completa.
Cosi, si può datare, afferma Troncarelli nel suo studio sull’argomento, che la
data deve essere posta dopo il suo distacco dei cistercensi. Gioacchino aveva
un affetto paternale nel confronto del monaco cistercense (Sambucina),
trattandolo più come amico o figlio che come abate di un ordine alternativo. Di
qua la possibilità che anche dopo il suo distacco dai cistercensi, Luca abbia
ancora collaborato con l’abate florense.
III – Raniero da Ponza[3]
La spiegazione della presenza di
più di una mano nel manoscritto 427 – soprattutto quella mano spagnola – è
attribuita da Troncarelli al fatto che Raniero di Ponza, legato pontificio in
Spagna (1198), abbia fatto riprodurre l’opera di Gioacchino nella corte di
Rancho el Fuerte di Navarra. Secondo lui, soltanto un amico dell’abate
calabrese, autorevole sarebbe capace di fare circolare un testo di scarsissima
circolazione e non autorizzata dalla Chiesa. Ancora, soltanto un’autorità, con accesso
al servizio degli scribi della corte navarense sarebbe capace di fare
riprodurre l’opera. Conta a favore della tesi il fatto dell’esistenza di una
tensione escatologica nella corte di el Fuerte, come dà testimonianza la
presenza delle profezie della Sibilla Tiburtina e della Sibilla Eritrea nella Bibbia
di Navarra, opera dei copisti che ruotano nell’orbita della cancelleria di
Sancho el Fuerte.

Infine, conclude l’autore di un autografo di Raniero di Ponza, le due
mani italiane sarebbero: quella di Raniero e quella di Frate Guido; e, la
ragione per la quale l’opera sia rimasta in Francia è che Raniero l’abbia
lasciata ad una delle abbazie cistercense vicine ad Aix.
[2] Tra le sue opera, merita
riferimento: Il libro della concordia, Esposizione dell’Apocalisse e il
Salterio a dieci corde. Nel 1519 e nel 1527 queste opere furono pubblicate per
la prima volta, di forma integrale, a Venezia.
[3] Alla base della
speculazione su quanto abbia collaborato Raniero alla diffusione delle opere
dell’abate Gioacchino si trova lo studio di Troncarelli sul manoscritto 427,
sezione latina della Biblioteca Nazionale di Parigi che riporta il Psalterium e
il LIber Introductorius al commento dell’Apocalisse. Il manoscritto è datato
dalla prima metà del dodicesimo secolo, ipoteticamente, originario dell’Italia
meridionale, da Avril i Gousset.
Il codice apparteneva alla collezione di Nicholas Fabri, provenzale che era
solito procurarsi manoscritti nelle abbazie provenzali.
Dall’analisi paleografica rivela che ci sono state varie mani nella
trascrizione e postillazione dei testi. Per esempio, nei margini compaiono due
mani che hanno annotato le opere gioachimite (la prima, dall’aspetto più arcaico, ha tracciato
una serie di segni che indicano i loci paralleli in cui l’autore ripete gli
stessi concetti e alcune delle citazioni delle fonti di Gioacchino. La seconda,
ha aggiunto i passi omessi dai copisti. Le due mani sono nettamente italiane).
Riguardo all’origine del codice: partendo dalle didascalie in cui si
trovano delle lettere che derivano dalla visigotica documentaria, viene
attribuita la presenza di almeno una mano di origine spagnola (Infatti,
l’autore dello studio, fa dei paragoni con altri scritti della fine del XII,
come la Bibbia
di Navarra.). Cosi, si conclude che il codice parigino è stato realizzato da
copisti che ruotano nell’orbita della cancelleria di Rancho el Fuerte di
Navarra, tra 1171 e 1198; ed è stato riveduto e coretto da due mani italiane,
che hanno in mano l’originale.
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