04 marzo, 2013

La produzione e diffusione delle opere dell'abate Gioacchino da Fiore




I – Breve biografia

Gioacchino da Fiore (1135-1202), calabrese, dopo di essere stato introdotto alla carriera notarile nella regia di Guglielmo I, decise di abbandonare la professione e si diede alla vita eremitica. In seguito, ha fatto un pellegrinaggio a Gerusalemme e sul Tabor avrebbe avuto una ‘visione’ che gli avrebbe dischiuso la comprensione di tutta la Sacra Pagina. Rientrando, ha vissuto da eremita e da predicatore sull’Etna (1168-1170). Nel 70 diventa sacerdote e un anno dopo, si fa monaco. Nel 77 viene fatto abate del Corazzo, lo stesso monastero che lo accolse qualche anno prima.
Con lo scopo di ottenere la filiazione all’ordine cistercense, si reca a Casamari (1183). Pur non riuscendo ad avere la filiazione[1], rimani a calamari per un anno e mezzo come ospite di quello monastero. In questo tempo di soggiorno a Casamari, sostenuto dall’abate Geraldo – sotto la protezione di Lucio III, sommo pontefice –, avvia la sua produzione teologica[2]. Sempre in questo monastero, conobbe Luca di Cosenza, che fungeva da notaio dell’abate Geraldo e diventerebbe il suo segretario.
In seguito a polemica che riguardavano il suo soggiorno fuori della sua abbazia, Gioacchino rientra a Corazzo e nel 1188 lascia il monastero, desideroso di fare un’esperienza più intensa e seria, sull’esempio di san Benedetto. Con lui, esce Raniero di Ponza che, più tarde, diventerà legato pontificio in Provenza e Spagna. Nel 1190, dà vita ad una nuova congregazione monastica forense, riconosciuta da celestino III (1196). A causa delle sue scelte teologico-politiche, verrà combattuto dall’abate cistercense Goffredo di Auxere, di chi lui, prima, si riteneva filius. Inocenzo III (1198) favorisce a Gioacchino e lo ordina di predicare la Crociata e chiama presso di sé, Raniero di Ponza che diviene, anche, suo confessore.
Nel 1200 scrisse una lettera conosciuta come Testamento, in cui sottometteva i suoi scritti a giudizio della Chiesa.

II – Luca di Cosenza

Nella composizione delle sue opere, Gioacchino si serviva di uno ‘staff’. Tra questi, appare Luca, che si dedicava a trascrivere delle pagine fitte di ripensamenti e correzione dettate o scritte su ‘cedole’. Da questo suo compito e da quanto ha lasciato scritto in un autografo, si può concludere che l’abate Gioacchino prediligeva l’uso di due grafie nello stesso testo, ragione per la quale lui abbia sollecitato a Geraldo che li concedesse Luca come assistente. Nell’autografo Luca fa riferimento al come lavorava: seduto, ai piedi di Gioacchino. Da questa informazione si può concludere che il caterno non doveva essere di grandi dimensioni per poter essere tenuto agevolmente sulle ginocchia. Ancora: che non era legato e che solo in seguito veniva assemblato con altri fascicoli.
Su questa scia, paragonando l’Enchiridion gioacchimita della Biblioteca Universitaria di Pavia (ms. Aldini 370), si trovano tante somiglianze con la cancelleresca di base tardocarolina delle forme di Luca. Anche la data del manoscritto rimanda, probabilmente a Gioacchino e luca ancora vivi. Il formato piccolo, per poter essere facilmente trasportato, l’apparato decorativo semplicissimo e la qualità della pergamena rivelano la scarsità economica. In questo testo, si vede l’uso di due stili: per la titolazione la cancelleresca e per il testo, la minuscola tardocarolina.
Oggi si domanda sulla data della trascrizione che può trovare una risposta, approssimativa nel riferimento interno che fa il testo alla presa di Gerusalemme (1187), alla terza crociata (1189) e fa riferimento, di passaggio, alla Concordia come opera completa. Cosi, si può datare, afferma Troncarelli nel suo studio sull’argomento, che la data deve essere posta dopo il suo distacco dei cistercensi. Gioacchino aveva un affetto paternale nel confronto del monaco cistercense (Sambucina), trattandolo più come amico o figlio che come abate di un ordine alternativo. Di qua la possibilità che anche dopo il suo distacco dai cistercensi, Luca abbia ancora collaborato con l’abate florense.

III – Raniero da Ponza[3]

La spiegazione della presenza di più di una mano nel manoscritto 427 – soprattutto quella mano spagnola – è attribuita da Troncarelli al fatto che Raniero di Ponza, legato pontificio in Spagna (1198), abbia fatto riprodurre l’opera di Gioacchino nella corte di Rancho el Fuerte di Navarra. Secondo lui, soltanto un amico dell’abate calabrese, autorevole sarebbe capace di fare circolare un testo di scarsissima circolazione e non autorizzata dalla Chiesa. Ancora, soltanto un’autorità, con accesso al servizio degli scribi della corte navarense sarebbe capace di fare riprodurre l’opera. Conta a favore della tesi il fatto dell’esistenza di una tensione escatologica nella corte di el Fuerte, come dà testimonianza la presenza delle profezie della Sibilla Tiburtina e della Sibilla Eritrea nella Bibbia di Navarra, opera dei copisti che ruotano nell’orbita della cancelleria di Sancho el Fuerte.
Raniero, secondo Troncarelli, avrebbe contribuito alla diffusione delle opere di Gioacchino non soltanto a Navarra, ma anche in Provance già che la sua missione come legato pontificio, in quel anno, finiva in Francia, dove il Frate Guido, compagno di Viaggio, lo aveva anticipate e attesa, dopo de aver compiuto la sua missione spagnola.
Infine, conclude l’autore di un autografo di Raniero di Ponza, le due mani italiane sarebbero: quella di Raniero e quella di Frate Guido; e, la ragione per la quale l’opera sia rimasta in Francia è che Raniero l’abbia lasciata ad una delle abbazie cistercense vicine ad Aix.


[1] Posteriormente, il monastero sarà affiliato al monastero di Fossanova.
[2] Tra le sue opera, merita riferimento: Il libro della concordia, Esposizione dell’Apocalisse e il Salterio a dieci corde. Nel 1519 e nel 1527 queste opere furono pubblicate per la prima volta, di forma integrale, a Venezia.
[3] Alla base della speculazione su quanto abbia collaborato Raniero alla diffusione delle opere dell’abate Gioacchino si trova lo studio di Troncarelli sul manoscritto 427, sezione latina della Biblioteca Nazionale di Parigi che riporta il Psalterium e il LIber Introductorius al commento dell’Apocalisse. Il manoscritto è datato dalla prima metà del dodicesimo secolo, ipoteticamente, originario dell’Italia meridionale, da Avril i Gousset.
Il codice apparteneva alla collezione di Nicholas Fabri, provenzale che era solito procurarsi manoscritti nelle abbazie provenzali.
Dall’analisi paleografica rivela che ci sono state varie mani nella trascrizione e postillazione dei testi. Per esempio, nei margini compaiono due mani che hanno annotato le opere gioachimite (la prima, dall’aspetto più arcaico, ha tracciato una serie di segni che indicano i loci paralleli in cui l’autore ripete gli stessi concetti e alcune delle citazioni delle fonti di Gioacchino. La seconda, ha aggiunto i passi omessi dai copisti. Le due mani sono nettamente italiane).
Riguardo all’origine del codice: partendo dalle didascalie in cui si trovano delle lettere che derivano dalla visigotica documentaria, viene attribuita la presenza di almeno una mano di origine spagnola (Infatti, l’autore dello studio, fa dei paragoni con altri scritti della fine del XII, come la Bibbia di Navarra.). Cosi, si conclude che il codice parigino è stato realizzato da copisti che ruotano nell’orbita della cancelleria di Rancho el Fuerte di Navarra, tra 1171 e 1198; ed è stato riveduto e coretto da due mani italiane, che hanno in mano l’originale.

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