16 marzo, 2013

Il cattolicesimo liberale: un'initerrota tradizione di pensiero



I – I Cattolici liberali dell’800

La cultura cattolica vanta un’initerrotta tradizione di pensiero liberale, mostrando al giorno d’oggi la sua forza teorica, la sua praticabilità, e il suo immenso valore morale. Gli eredi attuali della tradizione del liberalismo cattolico sono Michael Novak, Leonardo Liggio, Alejandro Chafuen e P.Robert A. Sirico negli Stati Uniti d’America, Jacqes Garello, Philippe Nemo e Jean-Yves in Francia, Lucas Beltràm in Spagna, e don Angelo Tosato in Italia.
Tornando indietro troviamo Alexis de Tocqueville (1805-1859) il quale considera che ciò che caratterizza i vari socialisti è un profondo disprezzo per l’individuo, con un tentativo continuo di mutilare in tutti i modi la libertà umana, pensando che lo stato debba essere il padrone di ogni uomo.
Dopo di Tocqueville viene Lord Acton, che considerandosi un cattolico sincero e un sincero liberale, rinuncia a tutto quello che nel cattolicesimo non è compatibile con la libertà, e a tutto quello che in politica non è compatibile con la cattolicità. Secondo Acton gli ostacoli alla libertà sono non solo le oppressioni politiche sociali, ma anche la povertà e l’ignoranza. Il suo pensiero è che nella coscienza risiede il diritto e il dovere di giudicare l’autorità, considerando la libertà il regno della coscienza, seme esso di ogni libertà civile, e il modo in cui il cristianesimo è stato al suo servizio. La libertà non è un prodotto della natura ma bensì della civiltà avanzata. La libertà del buon selvaggio è un invenzione mitologica, poichè per noi, la libertà è il prodotto lento, e il risultato più alto della civiltà.
Frédéric Bastiat (1801-1850) dice che una nazione oppressa da tasse è impossibilitata a ripartirle in modo ecquo, di cui lo stato è incaricato di operare in modo fraterno i suoi cattolici, si vedra trasformati i suoi cittadini in postulanti, i quali trovano buone ragioni per dimostrare che la fraternità è intesa nel modo: “i vantaggi per me, e costi per altri”, strappando cosi alla legislazione un lembo di privilegio fraterno.
Per Antonio Rosmini (1797-1855) la proprietà privata è un valore connesso alla persona, condizione vitale di esso e della sua libertà. Costituendo la proprietà privata una sfera intorno alla persona, di cui la persona ne è il centro. Mons. Clemente Riva commenta Rosmini dicendo, che esso, concepisce la proprietà privata come un orizzonte che abbraccia valori culturali, spirituali, sociali, materiali ed economici.

II – I cattolici liberali nel Novecento

Secondo Michael Novak, teologo economista americano, ciò che ha tanto rivoluzzionato la prospettiva della vita umana, ampliando la possibilità di scegliere e di affermarsi è il capitalismo democratico. Per capitalismo democratico lui intende: un’economia prevalentemente di mercato, rispetto dei diritti della persona alla vita e alla libertà, e un sistema di istituzioni culturali animate da ideali di libertà e giustizia per tutti. Quindi, il sistema democratico si fonda sull’offerta di pari upportunità; tutti i cittadini devono aver fiducia di poter migliorare la propria condizione. Ed, nel L’etica cattolica e lo spirito del capitalismo, lui asserisce che nell’intimo cuore del sistema capitalista vi è la fiducia nelle capacità creative dell’uomo.
Nella grande opera di Fredrich Hayek, sostiene Jacques Carrello, è avvenuto “l’incontro” tra il pensiero cattolico e il liberalismo, per lungo tempo in contrasto, poichè il liberalismo si presentava con tratti – tratti di razionalismo illuministico, di utilitarismo e di materialismo –, che non potevano essere inseriti all’interno della dottrina cristiana e del pensiero sociale della Chiesa. “Hayek ha distrutto quei razionalisti, eredi di una irragionevole età della ragione, che abusando di essa, sostenevano che il futuro non è, e non sarà mai, nelle nostre mani; dicendo che la società può e deve aiutare i più svantaggiati”. Garello, grazie a questi elementi del pensiero di Hayek è ragionevolmente ottimista circa gli esiti positivi che scaturiranno oggi dall’incontro tra cattolicesimo e liberalismo.
Scriveva Wilham Roepke (1889-1966) economista tedesco, che, l’antichità classica e il cristianesimo, sono i veri antenati del liberalismo, essendo antenati di una filosofia sociale, che regola il rapporto tra l’individuo e lo Stato. Sono sue queste frasi:
- In sostanza il liberalismo è il figlio leggittimo del cristianesimo.
- Il cristiano è un liberale che non sa di esserlo.
Quando morì Roepke, Ludwig Erhad cancelliere della germania occidentale, disse che il miracolo tedesco era dovuto in gran parte alle idee di Roepke.
Ma ben cosapevole del nesso, tra i suoi ideali cristiani e una politica liberale, in Germania è sempre stato Konrad Adenauer (1876-1967); alcune sue riflessioni:
- La media proprietà è una sicurezza essenziale degli Stati democratici.
- Secondo la mia opinione, gli interessi paralleli ed economicamente coordinati sono e saranno sempre la base più sana e più duratura per dei buoni rapporti politici tra i popoli.
- Secondo il mio parere, l’esistenza e il rango dell’individuo devono venire prima dello Stato.
In Italia, sulla stessa linea Luigi Einaudi (1874-1967):
- Liberalismo è quela politica che concepisce l’uomo come fine. Si oppone al socialismo il quale concepisce l’uomo come un mezzo per raggiungere fini voluti da qualcuno che sta al di sopra dell’uomo stesso, sia esso la società, lo Stato, il governo, il capo.
Don Angelo Tosato (1938-1999), maestro di liberalismo ai nostri giorni, ha mostrato con il suo lavoro esegetico, che la “richezza” che impedisce, a giudizio di Gesù, l’accesso al regno di Dio, è quella che rende insensibili all’indigenza dei fratelli, facendo trascurare il precetto fondamentale dell’amore del prossimo.

III – L’insegnamento di don Luigi Sturzo

Abate del liberalismo, nel secolo che abbiamo appena alle spalle, è don Luigi Sturzo (1871-1959). Ecco alcuni dei suoi pensieri:
- La democrazia vera non é stata statalista.
- Smobilitiamo, appena vi sia la possibilita,tutti gli enti che potranno essere passati all’economia privata, ovvero resi perffetamente autonomi. A far ciò primo e unico passo: proibizione per legge che gli impiegati statali di qualsiasi rango possano essere nominati amministratori, commisari e sindaci degli enti statali, parastatali o con partecipatazione statale.

- Io non ho nulla, non possiedo nulla, non desidero nulla. Ho lottato tutta la mia vita per una libertà politica completa ma responsabile. La perdita della libertà economica, verso la quale si corre a gran passo in Italia, segnerà la perdita effetiva della libertà politica, anche se resteranno le forme elletive di un parlamento apparente che giorno per giorno seguirà la sua abdicazione di fronte alla burocrazia, a sindacati e agli enti economici, che formeranno la struttura del nuovo Stato più o meno bolscevizzato. Che Dio disperda la profezia.
Quel poco che ci mette l’iniziativa privata da sola, al di fuori di contatti ibridi e torbidi con lo Stato, è merito di imprenditori intellegenti, di tecnici superiori, di mano d’opera qualificata della vecchia libera tradizione italiana. Ma va scomparendo sotto l’ondata dirigista e monopolista.
- Il paternalismo dello Stato verso gli enti locali, con sussidi, concorsi, aiuti e simili, toglie il senso della resposabilità della pubblica amministrazione e concorre in gran parte a deformare al centro il verso carattere del deputato.
- Oggi si è arrivati all’assurdo di voler eliminare il rischio per attenuare le responsabilità fino ad annullarle, poichè garantisce lo Stato. Allora dov’è il rischio? E la responsabilità? Svanita.
- in un paese, dove la classe politica va divenendo...classe statale, non solo va a morire la libertà economica, ma pericola la libertà politica.
- abbiamo in Italia una triste eredità del passato prossimo, e anche in parte del passato remoto, che è finita per essere catena al piede della nostra economia.
- Mi permetto di aggiungere il voto che si tenga  fermo il principio della libertà economica, elemento necessario in regime democratico cardine di prosperità e spinta al progresso.

IV – Lo scontro tra Sturzo e la Pira

Nel 1954 Giorgio la Pira scrive al presidente della Confindustria Angelo Costa che non ha senso parlare di libera concorrenza e di iniziativa privata, in uno Stato nel quale la quasi totalità del sistema finanziario è statale e i ¾ circa del sistema produttivo è direttamente o indirettamente statale.
Sturzo è persuaso che tali affermazioni provengono da un buon cristiano come la Pira, poichè per entrambi lo Stato è un mezzo, non un fine, e quindi esso attraverso la povera gente, possa assicurarea ciascun cittadino il suo minimo vitale. Tuttavia, Sturzo vede nella vuona intenzione de la Pira un errore. Errore questo, poichè lo statalista della povera gente, è pur sempre uno statalista, e lo statalismo porta alla fame distruggendo libertà e diritti umani.
Secondo la Pira i problemi del paese si sarebbero risolti ponendo la totalità del sistema finanziario in mano allo stato.
Secondo Sturzo le gestioni statali sono quasi tutte passive, e se attive sempre più costose a causa di: mancanza di rischio economico che attenua il senso di responsabilità; interferenze politiche che attenua o annulla la caratteristica dell’impresa. Tali considerazioni Sturzo le scrive sul Giornale d’Italia del 13 maggio 1954, ribadendo che la soppressione della libertà economica, presto o tardi comporta la perdita della libertà. In sostanza: “Lo Stato è per definizione inabile a gestire una bottega di un ciabbattino, e se incapace di amministrare la bottega di un ciabattino, come è stato possibile che in Italia i cattolici abbiano accettato di affidargli il quasi monopolio della scuola?”.

V – In somma:

Analizzando gli scritti del cattolicesimo liberale si rendono evidenti quelle che possiamo chiamare le ragioni della libertà: la nostra creaturalità e quindi la nostra fallibilità. Rosmini punta la sua attenzione su quella che chiama “lunga, pubblica, libera discussione”. Da parte sua, Antiseri afferma che, l’atteggiamento del liberale è qello di chi è disposto ad ammettere ‘io posso aver torto, tu puoi aver ragione’. “Mettendosi quindi in discussione – conclude –, ci si può avvicinare alla verita”. Esigendo così la discussione, che è l’anima della democrazia. Connesso ad esso, la consapevolezza della nostra fallibilita, si apre la competizione, macchina di esplorazione dell’ignoto, per il progredire della scienza.
Con entambi questi principi, quali consapevolezza della fallibilità, e principio di competizione, quello di euguaglianza. Per un cristiano non c’è nessun uomo che sia più importante di un  altro uomo, tutti hanno una uguale dignità e, questi, nella società aperta, sono uguali davanti alla legge. L’incoranazione di questa realtà e l’uguaglianza di  opportunità. Che onora i meriti e combatte i privilegi.


O discernimento vocacional



I Resumo
Discernir significa distinguir as diversas realidades presentes para depois tomar posição em relação a elas. O discernimento requer que a pessoa seja consciente da própria liberdade, do contrário seria isenta da responsabiliade dos atos. Um grande desafio atualmente é oferecer um discernimento vocacional que vise sobretudo ajudar principalmente aos jovens a desenvolverem suas capacidades e recursos pessoais para auto-dirigirem suas vidas, e consequentemente suas escolhas e decisões.
Esse trabalho não tem como objetivo dar resoluções para os inúmeros desafíos da Pastoral Vocacional, mas oferecer um meio ou luzes para qualificar o serviço de acompanhamento vocacional, pessoalmente e nos grupos; uma reflexão sobre a dinâmica cristã da vocação com as condições para o discernimento, os desafíos atuais que o interpelam, o significado do discernimento vocacional e enfim um modelo de critérios para a sua aplicação.

II Introdução

Discernimento é o ato ou efeito de discernir. É a capacidade de distinguir as situações, avaliando-as com bom senso e clareza, depois de conhecê-las e entendê-las, a fim de tomar posição em relação a elas. A partir da antropologia bíblica, a liberdade é a capacidade de optar voluntariamente pelo bem e concretizá-lo. E não só, a liberdade nos abre à verdade, graças à tendência interiore que nos conduz à verdade mesma, e não apesar dela. É fundamental nessa dimensão a função da Graça e do Espirito Santo[1].

III Condições para discernir

Para discernir a pessoa deve ser consciente da própria liberdade como pressuposição imprescindível. A liberdade é a capacidade de dispor de si mesmo; daí que só uma pessoa livre interiormente e em condições de liberdade pode discernir verdadeiramente. Do contrário, a pessoa mesma seria isenta da responsabiliade dos seus atos. A liberdade é um precioso dom, talvez aquilo de mais digno que a pessoa tenha na sua existência. Ela permite um olhar aberto diante da vida, sem reduzir ou desconsiderar nenhum dos seus aspectos. Interessante que, até mesmo as desvantagens são consideradas a fim de discernir bem, com sucesso.
Segundo o pensador espanhol Ortega y Gasset, o mundo é um repertório de possibilidades. Isso implica escolhas, que por sua vez necessitam discernimento. A decisão é um ato da vontade que canaliza forças para alcançar o objeto almejado. Por outro lado, o discernimento conta conscientemente com a possibilidade não só de acertar, mas também de errar[2]. Certamente, os desacertos podem ser frutos do modo apressado e desqualificado de se proceder no discernimento, não respeitando o conhecimento e a assimilação dos aspectos em jogo. Um bom discernimento é consequência do confrontar de idéias, sem medo, dando tempo ao tempo. No fim, o acerto portará sempre consolação e paz, e no fundo, a certeza de que era a coisa justa.

IV Discernir se faz necessário

O nosso mundo se caracteriza atualmente pelo fenômeno da globalização neoliberal do mercado, gerando em nome da liberdade irrestrita um sistema excludente, no qual as pessoas valem pelo que produzem. Enquanto sistema excludente, a globalização difunde a insensibilidade, levando as pessoas a se tornarem indiferentes diante dos problemas e dos sofrimentos dos demais seres humanos. Passa a vigorar a lei da concorrência, obrigando o indivíduo a pensar antes em si mesmo e ver no outro o concorrente a ser derrotado. A falta de sensibilidade, por sua vez, costuma fazer-se acompanhar do cinismo, do desprezo e do preconceito contra aqueles que reclamam da situação e tentam sobreviver[3].
Tudo isso provoca uma crise muito forte na dimensão espiritual, pois conduz a um estilo de vida onde os valores não vão além do cotidiano, do banal e do imediato, e no pior dos casos passam a ser relativizados. Isso por sua vez provoca comportamentos anti-éticos, ou seja, tudo é lícito, tudo é permitido, desde que sejam respeitadas as regras do mercado. Essa lógica mercantil faz as pessoas voltarem-se para si mesmas e para os próprios interesses, estimulando o cultivo do individualismo arrebatador e possessivo. Consequentemente há um desinteresse pela bem comum e a cidadania não ocupa mais espaço na vida dos membros de uma comunidade. Dá pra perceber o quanto é difícil falar e pregar os valores evagélicos em uma situação como esta.
O alerta do Episcopado brasileiro no Ano vocacional considerava esse fundo problemático como ponto de partida para pensar o discernimento vocacional. Sobretudo por considerar as consequências graves de tal realidade neoliberal:
“gera, entre outras coisas, o individualismo exacerbado, a arrogância e a pretensão de eficiência; favorece o espírito de concorrência, a sensação de incompetência e de irresponsabilidade coletiva. Ela tem o padrão de consumo como critério central de construção da identidade pessoal e grupal. Tende a desvalorizar a cultura local e a ver o pobre, aquele que não tem, como não-pessoa. Todas essas coisas criam sérias dificuldades para a opção vocacional”[4].
Um grande apelo ao discernimento, não só o vocacional, mas no sentido amplo de valores cristãos, é notado em quase todas as cartas de Paulo às diversas comunidades e pessoas por elas representadas. Um texto clássico, que serve de exemplo é: “Não vos ajusteis a este mundo, e sim tranformai-vos com uma mentalidade nova, para discernir a vontade de Deus, o que é bom, aceitável e perfeito” (Rm 12,2). Se vê que o discernimento é uma operação típica do homem espiritual, aliás é fundamental pois faz parte do culto espiritual apresentado no versículo anterior: “[...] pela misericórdia de Deus vos exorto a oferecerdes como sacrifício vivo, santo e aceitável; seja esse o vosso culto espiritual” (Rm 12,1).
Enfim, em meio a tantas condições vulneráveis e inconsistentes, o discernimento passa a ser um grande desafio para o homens e mulheres de bem. Mais ainda desafiador é falar de discernimento vocacional para o jovem de hoje, embora não seja um desafio negativo, mas uma necessidade pela qual a comunidade eclesial tem que se confrontar mais cedo ou mais tarde.

V Discernimento vocacional

O discernimento vocacional implica um desejo, talvez curioso, da parte de alguém em servir a Deus e aos irmãos, em um modo específico. Tal desejo deve ser discernido, purificado, confrontado a fim que as motivações ou os valores que estão por trás sejam claros e possam levar a concretizá-lo satisfatoriamente. Ou então, a fim de iluminar a busca, ampliando suas possibilidades, tendo sempre presente que Aquele che chama abençoa o esforço do que é chamado.
Não é fácil, aliás é um processo complexo, até mesmo pelo fato da unicidade das pessoas vocacionadas, as quais possuem uma história irrepetível. Por isso, o acompanhamento vocacional deve ser antes de tudo personalizado, ou seja, considerar o vocacionado naquilo que lhe é próprio: origem, história, cultura, etc. É uma exigência concreta de fidelidade à pessoa que busca no acompanhamento vocacional orientação para a vida. Efetivamente isso significa acolher as pessoas como elas são[5]. Isso requer um processo de formação aos futuros acompanhadores vocacionais, na esperança que se possa oferecer meios concretos que promovam o discernimento vocacional, dentro das possibilidades de cada realidade.
Por outro lado, o acompanhamento vocacional tem uma dimensão de mistério, isto é, não é uma realidade matemática que pode assegurar lucros e prever desvantagens. Não. Sobretudo porque lida com pessoas. E ainda por cima, é Deus a iniciativa da vocação. Ele tem critérios que são às vezes ilógicos dentro do ponto de vista humano. Basta recorrer aos vocacionados na Bíblia, homens e mulheres dentre os quais alguns não eram os melhores e mais capacitados, mas foram convocados e agraciados, e porque não dizer acreditados por Deus para uma determinada missão (Cf. Ex 3,1-12; Jr 1,4-10).
Diante do mistério da iniciativa de Deus em vocacionar alguém para uma missão, deve-se considerar o discernimento vocacional em todos os aspectos, mas principalmente a relação entre fé e personalidade. A realidade neoliberal apresenta uma visão fragmentada e inconsistente de tudo, e talvez seja por isso tão difícil para os jovens de hoje darem uma resposta comprometida e durável. De fato, muitos têm uma boa caminhada de fé, porém, de muita imaturidade humana para ter capacidade de escuta e opção radical[6]. Por conseguinte, em meio a entusiasmos e dúvidas, se faz necessário um caminho de conhecimento pessoal destemido, antes de mais nada, para depois avaliar as tendências vocacionais.
Em geral, a melhor maneira de se realizar o discernimento vocacional é num clima pedagógico favorável no qual acompanhador e acompanhado devem se encontrar para juntos dar espaço para atuação da graça de Deus, já que é o Espirito Santo o protagonista principal do acompanhamento. O acompanhador deve ser consciente da sua função de mediação e escuta reflexiva que ajude a iluminar o acompanhado.
De fundamental importância é o conhecimento e estima da própria vocação por parte do acompanhador vocacional. Afinal como lidar com o desejo vocacional de busca de um jovem, se antes de mais nada eu mesmo não tenha feito um percusso pessoal de busca vocacional, ou seja, experimentado na própria pele tanta inquietação interior? Em verdade, é sempre entusiasmante ter presente o sentido da vocação: “é o descobrimento do próprio rosto, do projeto de vida, do nome que Deus deu a cada um de nós, do papel que Ele confiou à cada um na vida [...] único, singular e irrepetível[7].
Infelizmente o discernimento vocacional por um lado é uma realidade temida não só pelos jovens, mas também pelos agentes de pastoral vocacional, talvez por sentimento de impotência diante do mistério da vocação, ou quem sabe por não querer se envolver tanto, para evitar os fracassos. Por outro lado, ao invés, quando se fala de discernimento, geralmente, se pensa logo na entrada do candidato no seminário ou no convento, de um modo mais ou menos definitivo[8]. E aí se esquece que um dos objetivos do acompanhamento vocacional é iluminar e promover o amadurecimento humano a fim de que o vocacionado seja capaz de optar por um caminho específico, e não os números e estatísticas.
Talvez, um aspecto pouco refletido ou pouco experienciado no trabalho vocacional seja justamente essa dimensão da gratuidade do serviço à vocação, ou seja, acolher, escutar e em um segundo momento oferecer pistas para que a pessoa escolhar livremente, sem intervenções interesseiras tipo:
– Contávamos com 20 jovens no último encontro vocacional e somente um resolveu ingressar... atualmente já está com os seus pais”.
Quem sabe esse tipo de pensamento seja déficit de uma visão eclesial mais ampla.
Esistem muitos modelos de critérios para o discernimento vocacional e justamente pela complexidade da realidade da vocação em si, nenhum deles é perfeito e por isso mesmo são somente modelos. Apresento suscintamente algumas orientações neste âmbito, de Amedeo Cencini[9]:
a)     Abertura ao mistério, sem afirmar-se rigidamente numa escolha definitiva, mas saber ler o que está acontecendo consigo mesmo de maneira gratuita, sem querer pré-definir nada.
b)    Prudência motivada pela esperança confiante de que a vocação não depende das próprias capacidades, mas da gratuidade d’Aquele que chama.
c)     Integração pessoal, ou seja, o conhecimento suficiente dos próprios aspectos positivos e negativos, dos ideais e das suas contradições, sem camuflar essas tensões sob a pretensão de ser vocacionado.
d)    Fazer um caminho de conhecimento pessoal: afetividade, dons e carismas pessoais, auto-estima, valores, mas também limites, fraquezas, inconsistências.
e)     Saber relacionar-se com a verdade-beleza-bondade da vocação, buscando-a sempre sem jamais exaurí-la. De fato, a busca incansável é típica de quem já encontrou, ou indica que se está na direção justa.
f)      Ser consciente da própria história de vida como lugar da presença de Deus, e portanto, o chamado não se dá em eventos extraordinários, mas dentro da própria história. E por isso é fundamental aprender a ler e compreender as suas aspirações pessoais.
g)     Viver a própria busca vocacional como sinal de gratidão a Deus por infundir tal desejo de busca, manifestação e dom da sua delicadeza para com o vocacionado.
h)    Enfim, é bom que o vocacionado conheça aquilo que é específico de cada vocação: exigências, responsabilidades, etc., para um discernimento seguro e claro.
Naturalmente que esses critérios devem ser vividos dentro de um itinerário vocacional, o qual implica: oração pessoal e comunitária, partecipação eclesial, escuta da Palavra de Deus, vivência sacramental, comportamento ético adequado, sensibilidade crítica diante do mundo. Um caminho largo, cheio de horizontes e também de dificuldades que caberá ao acompanhador e ao vocacionado percorrê-lo juntos. Pode ser que a intuição experiente de Cencini ilumine aos futuros acompanhadores no discernimento vocacional: “Há algum tempo compreendi que somente vivo devidamente a minha vocação quando permito que os demais descubram e aceitem sua própria e vocacão pessoal[10].

VI – Conclusione

No discernimento vocacional nunca se deve perder de vista o aspecto do mistério da ação divina da graça de Deus que vocaciona e ao chamar também capacita a responder generosamente ao seu chamado. Nesse sentido, se deve ter consciência das limitações humanas e principalmente de que as técnicas são somente um auxílio e não o fim do processo de discernimento. Por isso, a confiança consciente da presença e do auxílio de Deus, que não deixará a sua obra inacabada, permite um justo equilibrio.

VII – Bibliografia

Livros:
CENCINI, A., Alguien te llama, Carta a un joven que no sabe que es llamado, Sal Terrae 78, Cantabria, 2000.
GOYA, B., Formazione integrale alla vita consacrata, EDB, Bologna, 2000.
Documento:
Batismo: fonte de todas as vocações, Texto-base do Ano Vocacional no Brasil, CNBB, 2003.
Artigos:
BILHA, J. A., “Discernimento e seus critérios”, in Medellín XXX / 119-120 (2004).
CATAÑO, C. E., “La familia como primeiro y mejor seminario”, in Medellín XXX / 119-120 (2004).
CECINI, A., “I criteri del discernimento vocazionale”, in Rogate ergo, 5 (2001).


[1] BILHA, J. A., “Discernimento e seus critérios”, in Medellín XXX / 119-120 (2004), p. 396.
[2] BILHA, J. A., “Discernimento e seus critérios”, p. 397.
[3] Batismo: fonte de todas as vocações, Texto-base do Ano Vocacional no Brasil, CNBB, 2003, n. 55-57.
[4] Ibid., n. 59.
[5] GOYA, B., Formazione integrale alla vita consacrata, EDB, Bologna, 2000, p.28.
[6] BILHA, J. A., “Discernimento e seus critérios”, p. 410.
[7] CENCINI, A., Alguien te llama, Carta a un joven que no sabe que es llamado, Sal Terrae 78, Cantabria, 2000, p. 44.
[8] CATAÑO, C. E., “La familia como primeiro y mejor seminario”, in Medellín XXX / 119-120 (2004), p. 329.
[9] CENCINI, A., “I criteri del discernimento vocazionale”, in Rogate ergo, 5(2001) pp. 17-22.
[10] CENCINI, A., Alguien te llama, p. 10.

09 marzo, 2013

Il sentimento del "bello" e del "sublime" in Kant



I Introduzione

Nella Prefazione dell’Antropologia pragmatica, l’antropologia, che Kant chiama di dottrina della conoscenza dell’uomo[1], viene posta come oggetto di studio da due prospettive: fisiologia e pragmatica. L’approccio fisiologico determina quello che la natura fa dell’uomo; l’approccio pragmatico, invece, determina ciò «che l’uomo, come essere libero, fa o può fare di se stesso»[2], e questa visione viene riflessa nella Prima parte del libro, chiamata Didattica antropologica del modo di conoscere l’interno e l’esterno dell’uomo. In questa stessa parte, nel Libro II, Kant introduce il discorso sul bello e sul sublime, l’oggetto di questo lavoro; però, in un’altra opera: Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime[3].
Pubblicata in 1764, l’OSBS appartiene all’elenco di quelle opere chiamate precritiche e ha in comune con l’AP, opera della maturità kantiana – l’ultima in ordine di tempo, 1798 –, lo stile detto, popolare. Popolare per il fatto che sono di più facile intelligibilità[4]. L’altro aspetto che li accomunano è il desiderio di stabilire un modello per esaminare il sentimento, tanto nei suoi propri termini, quanto in quello che riguarda l’opposizione tra filosofia teoretica e pratica[5]. Lo scopo del lavoro è individuare questo modello nell’Opera precritica – fondandolo nel sentimento del bello e del sublime –, e vedere come questo modello viene inserito nell’Antropologia pragmatica, quello che sarà fatto nella Conclusione, a titolo meramente indicativo.

II Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime

L’OSBS conserva la seguente divisione: Capitolo primo – Sui differenti oggetti del sentimento del bello e del sublime –; Capitolo secondo – Sulle qualità del sublime del sublime e del bello nell’uomo in generale –; Capitolo terzo – Sulla distinzione fra il sublime e il bello nel rapporto tra i due sessi –; Capitolo quanto – Sui caratteri nazionali in quanto si fondano sul diverso sentimento del sublime e del bello. All’inizio dell’operetta, nel Primo capitolo, kant identifica le differenze tra gli oggetti del sentimento del bello e del sublime, e, sin dal principio, sottolinea che, quanto scritto, è, soprattutto, frutto dell’osservazione, più di quanto sia, della sua speculazione filosofica[6].
Prima di identificare gli oggetti, radica il fondamento delle diverse sensazioni – piacere e dispiacere –, non tanto nella natura delle cose esteriori che le producano ma, nella soggettività di ogni persona[7]; cioè, la fonda «sull’attitudine connaturale in ogni uomo di riceverne soddisfazione o insoddisfazione»[8]. Il senso latente di questi sentimenti, afferma Kant, è proprio l’inclinazione dell’uomo stesso verso la felicità, la ricerca di soddisfazione del piacere; constatazione motivatrice dell’esistenza dell’operetta. Infatti, ragiona Kant, offrendo all’uomo un intenso piacere, senza maggiori sforzi, questi sentimenti non possono essere considerati come irrilevanti.
«Individui ben pasciuti, per cui l‘autore più geniale è il loro cuoco e le cui dimostrazioni di gusto raffinato si trovano nella loro cantina, proveranno, per una grossolana sconcezza o scherzo triviale, un godimento non diverso da quello di cui va orgogliosa una persona di elevato sentire. Un uomo pigro, che trova piacere nell’ascoltare una lettura ad alta voce perché gli concilia in sonno; […] tutti costoro hanno un sentimento che li rende incline a godere questi piaceri come loro aggrada, senza provar invidia per i piaceri altrui […]»[9].
Tuttavia, conclude: «[…], ma ad essi non rivolgo per ora la mia attenzione»[10]. Tampoco verserà su un altro genere di sentimento: «l’inclinazione che si basa su un’intelligenza di vasto respiro, l’ebbrezza intellettuale di cui era capace un Keplero se […] non avrebbe venduta una delle sue invenzioni neppure per un principato»[11]. L’opera pretende esporre e esaminare esclusivamente le forme di sensibilità di cui sono capaci anche anime più comuni. Questo sentimento di mezzo può essere definito come,
«un sentimento di qualità superiore […] o perché è possibile goderne senza provare sazietà o stanchezza, oppure perché presuppone, per cosi dire, una sensibilità dell’anima che le consente di provare commozioni virtuose; o anche perché denota dei talenti o un’inteletto pregevole […]»[12].
Infine, le due disposizioni – i sentimenti del bello e il sublime – considerati usualmente dal punto di vista estetico, saranno considerate, da lui, anche, dalla portata etico-sociale, sarà un salto, dalla dimensione contemplativa, teoretica, alla dimensione antropologica, pratica, in sintonia con gli antichi greci, che li vedevano come oggetto di soddisfazione e di azione. Secondo Morpurgo-Tagliabue, gli antichi «non lo si cercava nelle cose di natura o di arte, ma negli uomini e nelle loro disposizioni; e anche in questo caso non in disposizioni naturali ma pragmatiche»[13].

A. la distinzione tra bello e sublime

Kant si riferisce sia al bello che al sublime come a due specie di questo stesso sentimento raffinato che l’uomo prova nell’anima, «ambedue provocano nell’animo una deliziosa commozione, ma in modo completamente diverso»[14]. Davanti al bello l’uomo si sente attratto, incantato; davanti al sublime, commosso. Il bello genera sensazioni deliziose, di serenità, liete e aperte al sorriso; il sublime, piacere misto a terrore, cioè: o spavento, o ammirazione o stupore.
Quando prova questi sentimenti, l’uomo reagisce differentemente, a seconda del sentimento che prova. L’uomo in preda al sentimento di sublimità «è serio, a volte, immoto e attonito»[15]; in preda alla bellezza, sereno, presentando «occhi luminosi, con tratti ridenti, e spesso anche, con espansiva allegria»[16]. Tuttavia, il sublime si può presentare in forme diverse: Terrifico, perché si fa accompagnare a sensazioni di terrore e anche di malinconia; Nobile, perché si fa accompagnare a pacata ammirazione; e, Solenne perché si fa accompagnare a bellezza che si irradia con intensità sublime[17].
Mentre il sublime commuove, il bello attrae; mentre il sublime deve essere grande, semplice, il bello può essere piccolo, adornato e abbellito[18]. Con l’esempio che segue, Kant dà un’immagine plastica:
«La vista di una piramide egiziana commuove, come riferisce Hasselquist, molto più di quanto possiamo figurarci attraverso tutte le descrizioni, ma la struttura è semplice e nobile. La Basilica di San Pietro a Roma è fastosa, perché su questa pianta architettonica, grande e semplice, è profusa tanta bellezza di ornamenti, come ori, mosaici ecc. da destare una grandiosa sensazione di sublime, derivante della suntuosità dell’opera. Un arsenale deve essere nobile e semplice, un castello di residenza sfarzoso, una palazzina bella è aggraziata»[19].
L’inteletto è sublime, come sublime è anche l’austera veridicità, la generosa abnegazione, l’amicizia, la tragedia con la sua nobile tristezza e la sua malinconia. Il bello, invece, è ingenioso come è bella è l’astuzia, l’amabile cortesia, come è bello l’eros e la commedia, con i suoi intrighi e i lieti scioglimenti[20].
Il sentimento del bello e del sublime, a causa delle sue caratteristiche, hanno un’estensione in quello che si riferisce alla nostra percezione della temporalità. Cosi,
«una durata indeterminata è sublime. Se essa appartiene al passato è nobile; se essa è vista nella prospettiva di un incalcolabile futuro, ha in se qualcosa di spaventoso. Un edificio è reso venerabile dalla sua remota antichità. La descrizione di Haller della eternità futura ci inspira un quieto orrore, quella della eternità passata un’attonita meraviglia»[21].
Kant attribuisce al sublime l’intelligenza, l’ardimento, la sincerità, lo zelo disinteressato; e al bello lo spirito arguto, la sottigliezza, il gusto dello scherzo e la cortesia[22]; ma, in verità, tutte queste distinzione servono solo di premessa, a modo di definizione, per i capitoli successivi, che versano sulle qualità del sublime e del bello nell’uomo in generale – Capitolo secondo, di carattere dimostrativo –; sulla distinzione fra il sublime e il bello nel rapporto tra i due sessi – Capitolo terzo, di conferme o deviazioni – e, sui caratteri nazionali in quanto si fondano sul diverso sentimento del sublime e del bello – Capitolo quarto, di corollari.

B. la distinzione fra il sublime e il bello nel rapporto tra i due sessi

Nel capitolo terzo, Kant cerca di fare la distinzione fra bello e sublime in rapporto tra i due sessi. Anche qui si può intravedere la pragmática. Pur non escludendo, contrassegna la bellezza al genere femminile e la sublimità al maschile[23]. Nelle donne, i pregi di uomo congiungono per esaltare al massimo il bello (e, viceversa in quello che riguarda all’uomo)[24].
Riguardo all’intelligenza, quella femminile è bella, quella maschile, in tutto che riguarda alla sua caratterizzazione, «deve essere» profonda[25]; è dà le sue ragioni: «L’intelligenza bella sceglie come proprio oggetto tutto quello che è strettamente legato ad un sentire delicato e lascia le speculazioni astratte o le nozioni utili ma aride, ad un’intelligenza attenta, solida, profonda»[26]. In questo senso, prosegue: «La virtù della donna è bella, dell’uomo, deve essere nobile»[27].
Riconoscendo le devianze nell’assumere il suo proprio in tutto il relazionato al rapporto sesso/sentimenti, Kant finisce con un giudizio:
«La cosa più importante è che l’uomo diventi più perfetto come uomo e la donna come donna: ciò significa che la forza di attrazione tra i sessi deve operare in conformità agli avvertimenti della natura e nobilitare ancor più l’uno e abbellire ancor più le qualità dell’altra»[28].

C. la distinzione tra le nazioni secondo il diverso sentimento del bello e del sublime

Nel quarto capitolo, conclusivo, si vede il risultato: la deduzione di quanto detto nei capitoli precedenti. Partendo dall’osservazione, Kant elabora la seguente divisione delle nazioni in quello che riguarda il rapporto trai il bello e il sublime: il carattere nazionale degli italiani e dei francesi tendono verso il bello; mentre quelli dei tedeschi, spagnoli e inglesi tendono al sublime[29]. La divisione dei caratteri nazionali viene confermata dal genio proprio di ogni nazione: l’italiana, dove si è sviluppata meglio la musica, la pittura, l’architettura e la scultura; la nazione francese è analoga a quella italiana, con la differenza di che è meno commovente. Della nazione inglese, dice lui, si deve sottolineare l’inclinazione al pensiero profondo, alla tragedia e all’epica; la nazione tedesca, a cui viene attribuita il genio della nobiltà e quella olandese, dove risalta il gusto per un ordine metticuloso e per la minuta graziosità[30].

D. le qualità del bello e sublime nell’uomo in generale

Dal secondo capitolo in poi, si vede delineare i tratti di un’antropologia, se cosi possiamo chiamare, morale, fondata sull’osservazione fenomenologica – o, ancora meglio, sui temperamenti umorali –, alle volte, molto descrittiva. Il richiamo agli umori servono, qui, a dare una sorta di classificazione in base agli effetti osservati. Ugualmente, nel Quarto capitolo – sui caratteri nazionali in quanto si fondano sul diverso sentimento del sublime e del bello – Kant aggiunge una nota e afferma che
«la mia intenzione non è certo quella di ritirare minuziosamente i caratteri delle nazioni, ma di abbozzare soltanto alcuni tratti che in essi esprimono il sentimento del sublime e del bello. Si può facilmente arguire che da un disegno siffatto ci si possa aspettare solo una passabile esattezza, dato che i tipi esemplari proposti risaltano soltanto considerando complessivamente e in termini generali anche coloro che aspirano ad un più fine sentire e che questo non manca ai caratteri di nessuna nazione che vogliano unire le più eccellenti qualità di questo tipo. […] Se queste differenze nazionali siano accidentali o dipendano dalle epoche o dalle forme di governo o siano necessariamente condizionate dal clima, non sto qui ad indagare»[31].
Kant classifica i temperamenti in quattro gruppi: sanguigno, melanconico, collerico e flemmatico. Il temperamento sanguigno è incline al bello sia in quanto è sensibile a scelte piacevoli sia in quanto produttore di effetti piacevoli; però, è più indulgente che giusto, più disposto a transigere, istintivo[32]; e, il suo opposto è il temperamento melanconico, in cui sentimento dominante è l’apprezzamento costante per ciò che gli appare elevato; ed, elevato ai suoi occhi non è l’individuo ma l’umanità, e, per questo, Kant afferma che, «la virtù autentica, secondo principi, ha dunque in sé qualcosa che sembra accordarsi al massimo grado con un temperamento melanconico, anche se in forma raddolcita»[33]. Raddolcita perché le persone di questo temperamento, severe con sé stesse e con gli altri, possono cadere «nell’ostinazione e nel fanatismo: per giustizia può diventare giustiziere, farsi vendicativo, o il suo rigore voltarsi in stravaganza»[34].
Da parte sua, il temperamento collerico agisce in prevalenza per principi – come il melanconico –, ma i suoi principi sono quelli particolari: «sono le massime sociali dell’onore, non le leggi umane della virtù […] possiede un certo senso dell’elevazione, ma solo quello della magnificenza, della pompa, della apparenza»[35]. Già il flemmatico non viene approfondito da Kant, perché ritiene ininfluente nei riguardi del bello e del sublime, cioè «siccome nella mistura che forma il temperamento flemmatico sono piuttosto esigui gli ingredienti del sublime o del bello, questa qualità dell’animo non rientra nel nostro campo di osservazione»[36].

III – Conclusione

Come appena visto, nell’OSBS, Kant offre un’analisi empiricamente orientata del sentimento attraverso alcune riflessioni su esempi organizzati in funzione del bello e del sublime. La propensione antropologica di questo testo viene ampliata nell’AP, in particolare nel Libro secondo – Del sentimento del piacere e dello dispiacere –, il quale fa di transizione dal Libro primo – Della facoltà di conoscere –, al Libro terzo – Dalla facoltà di desiderare, dove kant caratterizza il sentimento in termine di una transizione tra la filosofia teoretica e pratica, usando il quadro dei temperamenti come intermediario di una prospettiva etica.
Può essere detto che la sua antropologia, in OSBS, è significativa perché introduce a un profilo di comportamento morale, che avrà un orientamento più chiaro nell’AP, quando Kant chiarirà che il gusto ideale ha una tendenza a promuovere dal lato esteriore la moralità, «perché sbocca nella partecipazione del proprio sentimento di piacere o di dispiacere agli altri»[37].

IV – Bibliografia

E. Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, introduzione di Guido Morpurgo-tagliabue, RCS, Milano, 20067.
_______, Antropologia pragmatica, traduzione di Giovanni Vidari, Laterza, Roma-Bari, 20065.
_______, Enciclopedia filosofica, RCS-Bompiani, Milano, 2003.
C. Caygill, Dicionário Kant, Zahar, Rio de Janeiro, 2000.



[1] Cf. E. Kant, Antropologia pragmatica, traduzione di Giovanni Vidari, Laterza, Roma-Bari, 20065, 3.
[2] Ibid.
[3] E. Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, introduzione di Guido Morpurgo-tagliabue, RCS, Milano, 20067.
[4] Cf. G. Morpurgo-Tagliabue in, OSBS, 5-7; G. Vidari in, AP, V-VI.
[5] Cf. C. Caygill, «sentimento», Dicionário Kant, Zahar, Rio de Janeiro, 2000, 288.
[6] Cf. OSBS, 79.
[7] «Nel Settecento due concezioni si contendevano il campo, prevalendo poi nel corso del secolo l’una sull’altra. La prima è quella di origine razionalistica platônica [...]. [In questa] Il bello è una dote oggettiva del creato colta dalla nostra ragione. La seconda concezione è quella soggettiva ed empiristica delle sensazioni e dei sentimenti [...]; è la nozione del bello come piacevole, come inclinazione e soddisfazione edonistica, seduzione dei sensi, vitalità, festa, gaiezza, voluptas, capriccio [...]. Kant, che era partito, sotto l’influenza wolffiana, dalla prima concezione, in seguito, negli anni ’60, conosciuti gli autori inglesi, virò decisamente verso la seconda» (G. Morpurgo-Tagliabue in, OSBS, 13-15).
[8] OSBS, 79.
[9] OSBS, 79-80.
[10] OSBS, 80.
[11] Ibid..
[12] Ibid.
[13] G. Morpurgo-Tagliabue, in, OSBS, 10.
[14] OSBS, 80.
[15] OSBS, 81.
[16] Ibid.
[17] Cf. OSBS, 81.
[18] Cf. OSBS, 80-83.
[19] OSBS, 82-83.
[20] Cf. G. Morpurgo-Tagliabue, in, OSBS, 28-29.
[21] OSBS, 83.
[22] Cf. OSBS, 83.
[23] Cf. OSBS, 105.
[24] Ibid.
[25] Cf. OSBS, 106.
[26] OSBS, 107.
[27] OSBS, 109.
[28] OSBS, 122.
[29] Cf. OSBS, 123.
[30] Cf. OSBS, 124-125. Ugualmente, Kant identifica i caratteri spirituali delle nazioni partendo dalle loro disposizioni morali. Cosi, allo spagnolo (duro, riservato, leale, orgoglioso e spietato), italiano (ha un senso del bello più forte di quanto lo abbiano gli spagnoli e più senso dei francesi), francesi (predomina il sentimento della bellezza morale, affabile, gentile, piacevole, spiritoso), inglesi (inizialmente sembra freddo e indifferente, poco incline a amicizie, ma, in amicizia, sono persone date a fare grandi favori), tedeschi (mescolano sublime e bello, sono più simili agli inglesi che ai francesi), olandesi (ordinato e diligente, poco sensibile, si preoccupano soprattutto con l’utile). Finalmente, Kant analiza i caratteri nazionali in quanto al senso dell’onore, della religiosità, all’amore. Cf. OSBS, 125-129.
[31] OSBS, 123. Nell’Enciclopedia filosofica, Kant ribadisce la validità dell’analogia dei tratti peculiari: «è vero che sono in grado di effettuare osservazioni soltanto su me stesso, ma grazie all’analogia dei tratti peculiari (e) alle consonanze, posso estendere ad altri. Gli oggetti esterni posso conoscerli attraverso i dati fenomenici, altri uomini invece soltanto per mezzo dell’analogia con me stesso» (E. Kant, «psicologia empirica», Enciclopedia filosofica, RCS, Milano, 2003, 195).
[32] Cf. OSBS, 97-98.
[33] OSBS, 94.
[34] G. Morpurgo-Tagliabue, in, OSBS, 32.
[35] Ibid.
[36] OSBS, 100.
[37] Cf. AP, 133.